Viaggio in periferia – Inizia il viaggio

interviste nel quartiere di San Polo a Brescia, 2023

di Lucia Marchitto

Ogni viaggio inizia sempre chiudendosi la porta di casa alle spalle, nel palesarsi questo pensiero mi rendo conto che non è del tutto vero, che il viaggio inizia prima mentre ci mettevamo le scarpe, anzi ancora prima, mentre riordinavamo la casa, girando da una stanza all’altra, soffermandosi in una di queste, perché anche lì si possono fare viaggi senza scarpe e senza cappotto, senza sciarpe e guanti, penso questo perché siamo in inverno e stamani ci sono tre gradi di massima, e, forse, è proprio lì, nella stanza che il viaggio prende forma, decidendo dove portare i passi fuori casa, e mentre decidi tocchi cose, sposti sedie, togli la polvere dei giorni che si è accumulata. Il silenzio intorno è solo un complemento che serve a far sentire più forte le voci che qui vi sono rinchiuse: prigioniere del tempo recitano la loro parte.

Sono arrivata in questa casa, che si trova in via Tiziano, nel 1989, aveva porte bianche di cartone, per me che lasciavo il disagio di vivere a Borgosatollo dove non avevo parenti né amici e che vivevo in una vecchia cascina magnificamente ristrutturata, piccola e graziosa, ma piena di nebbia, la nebbia fu l’ostacolo più duro da superare, questa casa mi diede il respiro, il respiro di poter contare su una serie di servizi indispensabili per me madre lavoratrice di due figli piccoli. La scegliemmo perché vicina al plesso scolastico di via Raffaello. Non solo le scuole a due passi, ma con il servizio di anticipo e prolungato potevo portare e andare a prendere i miei figli a scuola senza bisogno di una babysitter perché trovare quella giusta è sempre un problema! D’ altra parte poi, essendo noi quel che siamo, essendo cioè né ricchi, né poveri, questo quartiere era alla nostra portata economica.

Quando vi giunsi dovetti trovarmi un punto di riferimento per non sbagliare traversa, e quel punto fu la cabina telefonica, tutti quei cavalcavia, che collegano le traverse delle villette con il parco dedicato a Fabrizio De André, mi confondevano.

Vi giunsi e ne colsi la bruttezza, non poteva essere altrimenti, ma mi sentii in pace.

Mi sentii in pace nonostante la fama che aveva il quartiere, nonostante le parole dei miei colleghi: “Sei andata ad abitare in un quartiere malfamato” “Io ho paura persino a passarci in macchina!” “È il Bronx!”.

E qui continuo a viverci e oggi, e dopo tutti questi anni, mi appresto a iniziare un viaggio, un viaggio dentro San Polo, per sentire la voce, le storie di altri che vi abitano, per raccontare tutti insieme, come è nato, come è cresciuto il quartiere, come viene vissuto, per costruire la memoria di una comunità attraverso la scrittura, perché è attraverso le piccole storie che si scrive la Storia, perché, come dice Francesco De Gregori, la Storia siamo noi.

Metto gli scarponcini, guanti, sciarpa e cappello, imbacuccata come una vecchia, d’altra parte giovane non sono, mi avvio. Prendo la stradina che porta alla cascina Maggia che ora è chiusa, ma c’è stato un tempo in cui c’era il bar, il ristorante, le camere da affittare, la sala conferenze, con l’area camper quasi sempre piena. Fu ristrutturata pochi anni dopo il mio arrivo qui, ora e lì che aspetta un nuovo destino con quell’aria triste e malinconica delle cose abbandonate, la tristezza sottolineata e riassunta su quel foglio plastificato e sbiadito che recita: “temporaneamente chiuso”, la malinconia lo circonda tutt’intorno come un’aureola.

Costeggio il canale in fondo al boschetto inoltrandomi tra gli alberi, libero il cane che inizia a correre e ad annusare. Osservo le piante spoglie, come monumenti si allungano e si allargano verso il cielo che oggi è carico di nuvole, grigio, pare addormentato, eppure questo grigio mi sembra appropriato per camminare nel sogno che mi sono sognata. Tiro il ramo di un albero e noto che ha dei piccoli bottoncini, si sta preparando alla primavera, per terra le foglie secche scricchiolano sotto le scarpe, è un tappeto sfumato nelle varie tonalità del marrone, sono perlopiù foglie di quercia, con quella loro forma che mi ricorda una mano aperta, tra queste spuntano verdi e brillanti ciuffi di foglie dritte e lunghe di giacinto selvatico. Odo un fruscio, proviene da un tronco verde ricoperto di edera, freme come se fosse scosso dall’interno da qualcosa, e poi li vedo: sono tanti piccoli passeri che volano tra le foglie, uno mi pare sia un pettirosso. Dal boschetto passo direttamente nel parco che scopro chiamarsi “Giardini Giovanni Borghetti” leggendo la lapide posta per terra che si confonde con le foglie, ma che mostra spigoli un poco sollevati, se cammini distratta puoi inciamparci dentro perché non c’è nessuna barriera a protezione.

Questo parco giardino che doveva forse essere un campo da calcio avendo due porte nel suo interno ma che poche volte ha visto ragazzi giocare, è diventato il campo dei cani, è ampio e confina a sinistra e in fondo con i campi, oltre i campi la stazione metropolitana, il parcheggio e l’ospedale Poliambulanza.

Questi ultimi non c’erano nell’anno in cui venni ad abitarci. Girando lo sguardo noto in lontananza il Guglielmo con la cima innevata e la Maddalena, più avanti alcuni palazzi, aguzzo la vista e infine ne individuo uno in via Brunelleschi con qualcosa di rosso dentro, ed è lì che abita Claudia.

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